XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

XXVIII DOMENICA    del Tempo Ordinario – Anno C 

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

L’abbiamo già detto, Gesù aveva un senso dell’orientamento geografico un po’ strano: non rispettava le logiche dell’ottimizzazione dei percorsi. Tuttavia conosceva bene la geografia esistenziale e del cuore, e infatti, se prendiamo una cartina geografica in mano, scopriremmo che se non è logico passare dal nord (Samaria e Galilea) per andare a sud (Gerusalemme), è squisitamente confortante sapere che Gesù attraversa terre di paganesimo e infedeltà che sovente sono i due nomi dei nostri cuori: Gesù non disdegna il passaggio continuo e la sua presenza proprio nel loro mezzo per essere offerta  guarigione e di misericordia costante. Potremmo dirla con San Paolo, nella seconda lettura: “se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”. 👉 Io cosa me ne faccio della fedeltà di Gesù alla mia vita? Quanto corrispondo e trovo spazi di scambio a partire dalla Sua presenza? Entrando nel villaggio Gesù, poi,  incontra dieci lebbrosi reietti e disobbedienti –  perchè dovevano stare nel deserto e non nel Villaggio –  che gli chiedono la guarigione. Appena li vede la sua risposta affermativa mette in conto la loro collaborazione: “andate dal sacerdote!”. Questi uomini non avevano ancora visto nessun segno, ma nel loro stato di malattia iniziano a camminare FIDANDOSI, credendoci, e mentre camminano avviene il processo di guarigione, che come sempre, corrisponde al grado di fede messo nei confronti del Maestro. Capita così anche per noi. Non è la situazione perfetta che ci fa partire, che ci fa alzare, che ci dà la forza, ma il nostro stato di bisogno che accoglie e si fa accompagnare dalla forza della Parola: “la tua fede ti ha  salvato”. Questo il compimento del miracolo: avere compreso che la beatitudine della vita nasce dal corrispondere al dono della Buona Notizia che viene fatto a TUTTI quelli che lo vogliono. 👉 Io che posizione ho nei confronti del dono della Parola di Dio? Sono consapevole che tante volte le cose non cambiano e rimangono inconcluse nelle mia vita lo sono perchè non accolgo la forza della Parola di Gesù? Una volta riscoperta questa dinamica di vita, sicuramente torneremo da Lui per ringraziarlo, ossia per vivere l’Eucarestia, atto di rendimento di grazie per la vita che ci è data, e magari rinnovati a tal punto da rendere visibile anche ai nove che non si sono presentati, che forse proprio lì si può trovare quello che non c’è altrove. 

XXVII DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Nella seconda lettura della messa di domenica, San Paolo, scrivendo a Timoteo dice: “Figlio mio, ti ricordo di RAVVIVARE il dono di Dio, che è in te”. Può sembrare una cosa scontata e banale, in realtà non lo è per niente. Ravvivare significa impiegare tutte le proprie forze e risorse per mantenere vivo qualcosa. Ravvivi il fuoco, ravvivi il pavimento di casa quando lo pulisci, ravvivi un quadro quando lo restauri, restituendo alla tela i colori originari coperti da patina e sporco, ravvivi ogni volta che cerchi di eliminare tutto quello che ha portato o potrebbe portare morte a qualche realtà che invece reclama vita e possibilità di espressione. La stessa identica cosa vale per la nostra fede: un fuoco vivo che viene alimentato dalla legna, protetto dalle correnti e dall’acqua ha la stessa struttura del nostro legame con Dio, che abbisogna di cura costante e meticolosa … per non morire. Io cosa faccio per tenere vive le ragioni della mia speranza? Mi sono fermato al catechismo delle elementari o sono cresciuto con il Vangelo? Rendo possibile a Gesù la comunicazione della sua forza e della sua presenza nella mia quotidianità? Come?  

Il salmo ci dà una risposta nel ritornello che canteremo o reciteremo assieme, ossia: “ascoltate OGGI la VOCE del Signore”. Si parla di due cose: l’OGGI e la VOCE del Signore. Il mio oggi, l’unica risorsa che ho a disposizione nella vita, se voglio vivere veramente la pienezza dell’istante, che coincide con una vita che non si lega alle nostalgie di un passato (più idealizzato che reale, a volte) e non affida la ragione della speranza a un ipotetico futuro che non arriva mai. Ci viene consegnato solo il presente: il passato o il futuro sono stati o saranno il frutto della nostra PRESENZA.  Tutto ciò reclama un tempo che noi dichiariamo di non avere mai, ma, in realtà sarebbe più preciso dire, non TROVIAMO mai. Perchè non scegliamo e ci facciamo trasportare da mille cose. Tante sono  inevitabili, ci mancherebbe, ma tante subite, sovente con il gran piacere apparente e falso di risollevarci dalle tribolazioni. Però non è evitare i problemi la possibilità della loro soluzione, ma ascoltandoli facendoci guidare dalle ispirazioni più sagge e importanti. Per questo nel nostro OGGI c’è sempre una VOCE che ci parla in mille modi, che può essere ascoltata da chi non indurisce il cuore e volge al sua attenzione alla presenza di Dio. Non solo Parola, ma VOCE: il Signore ci parla in mille modi. E veramente le nostre ventiquattr’ore sono piene di messaggi importanti, inviti a rinnovarci, trasformarci e trovare punti di equilibrio e fraternità in grado di fare nuove le cose. Tutti i giorni. Ogni OGGI. Come gestisco il mio tempo? So esserne padrone o mi viene sequestrato continuamente da distrazioni inutili? 

 

Il vangelo ci promette che basta una fede grande come il granellino di senape, che alla fine è l’invito a non puntare sulla quantità, ma sulla qualità delle cose che facciamo: possiamo avere 1, 3 o 5 talenti: non importa! Quello che conta veramente è la pienezza che metto in quello che faccio: “sei stato FEDELE NEL POCO, ricevi MOLTO!”.  Non si tratta di piccolezza o grandezza, ma di coinvolgimento, apertura, disponibilità e attenzione. E questo rende la nostra vita qualcosa di nuovo: un servizio, la regalità di gesti che rinnovano il mondo a partire dalla buona notizia della possibilità di un mondo e un’umanità diversa, come quella propiziata da Gesù e dal Suo Vangelo. La proposta è veramente appassionante. Siamo tutti stanchi di certi cliché e certi modi di fare … perchè non rendere possibile questa differenza? Varrebbe la pena! La mia fede trasforma la mia vita? Cosa vogliono dire per me le parole di Maria: “sono servitore della Tua Parola?”

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

AMMINISTRAZIONE SCALTRA

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Il Vangelo di oggi è strano, lascia interdetti, ma lo scopo delle parabole è proprio questo: trovarsi davanti a una situazione paradossale. 

Forse la potremmo capire meglio pensando al fatto che è successivo ai racconti di tre perdite nel vangelo di Luca: la pecora perduta, la dramma perduta e il figlio perduto. 

Oggi Gesù ci parla di un amministratore disonesto che perde il suo lavoro a causa della sua corruzione. 

Si dà da fare con tutta l’ingegnosità possibile per rimettere le cose a posto, e, continuando a essere profittatore e opportunista nel suo modo di agire, viene lodato per la sua scaltrezza. 

Attenzione, non per la disonestà, ma per la laboriosità impiegata a risolvere il suo problema (scaltrezza). 

Perchè questo padrone – che sembra rappresentarci Dio così da vicino – è contento? Questo è il paradosso evangelico: perchè il padre è felice quando vede un figlio che mette in atto tutte le proprie risorse pur di potere essere contento e dare senso ai suoi limiti. 

A me il Vangelo di oggi suggerisce anzitutto tre domande: 

  1. CHI SEI? L’amministratore disonesto ha le idee chiare della sua situazione: 

Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno.

2. COSA VUOI? Di conseguenza quest’uomo mette in gioco tutte le sue forze per risolvere questa situazione di limite riconosciuta: 

So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua

E sappiamo cosa fa. 

Le trovo forti queste domande: per non sprecare, per non perdere la tua vita, chiediti con grande chiarezza CHI SEI e COSA VUOI, altrimenti rischi di non andare da nessuna parte o di vivere la tua esistenza sospinto da tutti i venti del mondo. 

Così però, non si va da nessuna parte. 

Io so dare una risposta a queste due domande? 

Se poi vogliamo concretizzare ulteriormente il testo,  facendo una riflessione più pratica sull’uso del denaro (che Gesù definisce sempre “altrui” e “disonesto”) potremmo farci altre due domande: 

3. COSA CONTA REALMENTE? COSA RESTA QUANDO TUTTO FINISCE? 

L’amministratore passa dall’amministrare i beni alla cura delle relazioni. 

Nuovi investimenti, nuove cose importanti. 

Insomma, oggi Gesù ci suggerisce queste quattro domande che hanno il potere di riattivare la vita: 

CHI SONO? COSA VOGLIO? COSA CONTA DELLA MIA VITA? COSA RIMANE ALLA FINE? 

Ieri leggevo questa bellissima frase di Joseph Conrad: 

NELLA VITA NON C’É GRANDE SCELTA. O MARCIRE O ARDERE. 

E se cominciassimo ad ardere? 

D’altronde non siamo luce nella LUCE? 

BUONA DOMENICA!

XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. 
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Amare (di più), costruire e partire (per la guerra). 

Tre verbi un po’ strani, ma significativi, che riguardano tutto il cammino della vita. 

Anzitutto Gesù chiede di amare Lui PIÚ di ogni altra persona! Lì per lì ti fai due domandine: com’è possibile? Tranquilli! L’amore esiste solo nella sua pienezza, non sarebbe tale al 99%. Esiste solo al 100%. E allora questo non significa togliere qualcosa all’amore nei nostri cari, ma trovare quel riferimento per cui la nostra pienezza può rimanere sempre tale perchè ancorata a una pienezza infinita e gratuita. Quindi non si tratta di sottrarre, ma di trovare il pieno! La domanda potrebbe essere: “cosa mi fa amare IN VERITÁ a prescindere dai miei stati umorali,  dai meriti, dai tornaconti e dagli opportunismi?”. Ecco perchè dobbiamo riconoscere la pienezza che dà senso a tutte le mie pienezze. E per far questo occorre PORTARE LA CROCE, che non è una sventura che  capita tra il capo e il collo, ma il nome del prezzo della fedeltà a quello che credo. Per Gesù ha avuto la forma della croce, per me può essere una rinuncia, un’attenzione, una perdita del centro, una condivisione scomoda … Nessun masochismo, tutto a servizio della liberazione e dell’accrescimento del senso della vita. 

Gesù poi dice che essere suo discepolo è un compito che richiede un progetto da tenere costantemente sott’occhio. Per questo il racconto del vangelo inizia con l’invito a VEGLIARE, perchè troppe volte, la narcolessi socio-culturale che porta ai nostri sonni di massa pilotata –  a partire da quel cellulare che come una flebo teniamo sempre in mano a mo’ di scaricatore di adrenalina – richiede i nervi saldi di colui che non si lascia fregare ma ha il cuore sempre attento e in funzione per costruire la torre in maniera corretta!  

E infine … PARTIRE IN GUERRA! No! Non sia mai! Chiaramente è una metafora, un modo parabolico di parlare. Forse Dio è Dio degli eserciti perchè deve guidare un “esercito di pace”, quello dei suoi discepoli – nella guerra contro le ingiustizie, contro le devastazioni seriali delle menti e dei cuori, contro l’annullamento del pensiero e dell’identità … contro le mille guerre che partono dai nostri pensieri, e, quasi anonimamente, si espandono dalla prima cellula del cuore a tutto il Sistema Solare.

XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Lc 13,22-30
 
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

C’è sempre qualche persona interessata alla statistica dei “salvati”. Di solito è qualcuno che in cuor suo pensa di appartenere già alla schiera degli eletti … Gesù risponde a questi tali con delle immagini molto significative che potrebbero farci pensare, sopratutto noi, che siamo di quelli che mangiano, bevono alla sua presenza e ascoltano il suo insegnamento nelle (nostre) piazze. 

Mi soffermo su tre riferimenti a mio parare assai significativi. 

  1. Gesù non dice queste parole per impaurirci. La sua intenzione, dall’inizio alla fine del Vangelo, e anche quello che parla oggi ai suoi interlocutori, e dunque a ognuno di noi, è lo stesso che diceva: “«Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano.», oppure che «C’è più gioia in cielo per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.» … ma proprio per il grande amore che ha nei confronti dei suoi figli è sempre molto preciso a usare delle immagini con un forte impatto perchè rimane sempre un problema: “«Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.” … e infatti lo vediamo cosa succede quando l’uomo non converte il suo cuore alla speranza, alla misericordia, alla solidarietà, alla giustizia … terrificante! Il Vangelo mi invita a non rinviare la DECISIONE DI VIVERE! Quanto mi tocca questo invito alla conversione di Gesù? 
  2. Gesù dice che le cose possono cambiare con un segreto: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta!” Porta stretta è restare onesto in un ambiente dove tutti imbrogliano; Porta stretta è dire la verità quando mentire ti converrebbe; Porta stretta è non vendicarsi, anche se ne avresti l’occasione; Porta stretta è perdonare, anche se il mondo ti dice “non ti far mettere i piedi in testa”. In un mondo dove vince l’apparenza, scegliere la verità su di sé è “passare per la porta stretta”. È guardarsi dentro, riconoscere le proprie fragilità, senza maschere. È ammettere un errore invece di giustificarsi. È non vendersi per approvazione, ma restare fedeli ai propri valori. É un genitore che rinuncia a se stesso per amore dei figli.É un giovane che rifiuta scorciatoie facili, anche se gli altri le prendono. É un lavoratore che fa il proprio dovere, anche se nessuno lo vede. É mettere Dio al centro, non il proprio ego. É lasciarsi correggere dalla Parola, anche quando brucia. É lasciarsi potare per portare frutto (Gv 15). Insomma … non sempre molto comodo. Ma sappiamo che l’alternativa delle porte larghe non portano da nessuna parte… anzi, a volte rischiano di farci diventare OPERATORI DI INGIUSTIZIA. Per me, questa settimana, qual è la porta stretta che sono chiamato ad attraversare?  
  3. Infine mi fa sempre riflettere il fatto che Gesù per definire coloro che bussano alla sua porta per entrare non dica un nome o delle opere, ma “non so di dove siete”. Come dire che la nostra identità non è anzitutto fatta coincidere con quello che facciamo vedere di noi o con il nostro nome, ma con la fonte dalla quale decidiamo di nascere e vivere ogni giorno! Essere AUTENTICI SOGGETTI non è una questione egoica, ma di provenienza. Cosa facciamo e quanto lavoriamo per tenere vive, quotidianamente, le nostre sorgenti? 

XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».  (Lc. 12, 32 – 48) 

Il fondale unico su cui si stagliano le tre parabole (i servi che attendono il loro signore, l’amministratore messo a capo del personale, il padrone di casa che monta la guardia) è la notte, simbolo della fatica del  vivere, della cronaca amara dei giorni, di tutte le paure che escono dal buio dell’anima in ansia di luce. È dentro la notte, nel suo lungo silenzio, che spesso capiamo che cosa è essenziale nella nostra vita. Nella notte diventiamo credenti, cercatori di senso, rabdomanti della luce. L’altro ordito su cui sono intesse le parabole è il termine “servo”, l’autodefinizione più sconcertante che ha dato di se stesso. I servi di casa, ma più ancora un signore che si fa servitore dei suoi dipendenti, mostrano che la chiave per entrare nel regno è il servizio. L’idea-forza del mondo nuovo è nel coraggio di prendersi cura. Benché sia notte. Non possiamo neppure cominciare a parlare di etica, tanto meno di Regno di Dio, se non abbiamo provato un sentimento di cura per qualcosa.

Nella notte i servi attendono. Restare svegli fino all’alba, con le vesti da lavoro, le lampade sempre accese, come alla soglia di un nuovo esodo (cf Es 12.11) è “un di più”, un’eccedenza gratuita che ha il potere di incantare il padrone.

E mi sembra di ascoltare in controcanto la sua voce esclamare felice: questi miei figli, capaci ancora di stupirmi! Con un di più, un eccesso, una veglia fino all’alba, un vaso di profumo, un perdono di tutto cuore, gli ultimi due spiccioli gettati nel tesoro, abbracciare il più piccolo, il coraggio di varcare insieme la notte. Se alla fine della notte lo troverà sveglio. “Se” lo troverà, non è sicuro, perché non di un obbligo si tratta, ma di sorpresa; non dovere ma stupore.

E quello che segue è lo stravolgimento che solo le parabole, la punta più rifinita del linguaggio di Gesù, sanno trasmettere: li farà mettere a tavola, si cingerà le vesti, e passerà a servirli. Il punto commovente, il sublime del racconto è quando accade l’impensabile: il padrone che si fa servitore. «Potenza della metafora, diacona linguistica di Gesù nella scuola del regno» (R. Virgili).

I servi sono signori. E il Signore è servo. Un’immagine inedita di Dio che solo lui ha osato, il Maestro dell’ultima cena, il Dio capovolto, inginocchiato davanti agli apostoli, i loro piedi nelle sue mani; e poi inchiodato su quel poco di legno che basta per morire. Mi aveva affidato le chiavi di casa ed era partito, con fiducia totale, senza dubitare, cuore luminoso. Il miracolo della fiducia del mio Signore mi seduce di nuovo: io credo in lui, perché lui crede in me. Questo sarà il solo Signore che io servirò perché è l’unico che si è fatto mio servitore. (E. RONCHI)