XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

DATE LORO VOI STESSI

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma l
e folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «
Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi
sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini. 

 

Buona domenica, e buon primo giorno della settimana! Quello che vivremo fino alla prossima domenica, accompagnati dalle suggestioni e dalle sollecitazioni del Vangelo. Ancora grazie a chi, anche questa settimana, ha mandato il proprio contributo da condividere sul sito; a chi continua a sperare in Gesù e a vivere come Lui ci insegna. Piccolo segno di grande differenza. Per noi e per gli altri. Quando è che siamo Parrocchia? Quando nella nostra DIVERSITÁ cerchiamo in Gesù il PUNTO DI RACCOLTA, DI SENSO E DI UNITÁ delle nostre vite e proviamo a raccontarlo come possiamo, a partire da noi con Lui. Oggi ho evidenziato delle parole che magari potrebbero diventare, per chi legge, piccolo spunto e seme di riflessione. Anzitutto Gesù si ritira dai luoghi del potere – da Erode – e la folla, quella con dei malati, lo segue (altro che un Signore dei “perfetti” e “in grazia” … )! Il luogo è deserto: si cammina a piedi come nel deserto da attraversare che porta alla libertà nel libro dell’Esodo. Il comando dato ai discepoli –  di fronte al senso di insufficienza, relativo a ciò che  non si possiede per i bisogni della folla numerosa – cambia il modo di pensare: non si tratta di dare delle cose, ma di dare SE STESSI! “Voi stessi date voi stessi!”. E ci si accorge che le cose si “animano”, si riempiono di nuove possibilità, si moltiplicano nella mani della fiducia in quella Parola. E ci si siede sull’erba, perché il deserto di trasforma in un giardino, e l’Eden del “non tutto” del libro della Genesi con Gesù riapre il suo cancello perché qualcuno ha deciso di uscire da sé per incontraLo con gli altri nel gesto di un dono. Fatto di piccole cose, ma di tutto di cuore. Cinque pani e due pesci che ricordano l’inestimabile quattrino della povera vedova al tempio che “ha dato tutto ciò che aveva per vivere”. Quante persone, nel silenzio, senza ringraziamenti – la maggior parte delle volte – da nessuno, con estrema umiltà e dedizione ci credono … “santi pazzi” del Vangelo che, agli occhi di chi ha già capito tutto, altro non possono ricevere che lo sberleffo della derisione: “ma chi te lo fa fare?”. Santi pazzi che sfamano il mondo e trasformano la sabbia arida da attraversare in tenera zolla di erba verde sulla quale sostare mangiando. Magari all’ombra. 

Questa settimana proviamo a pensare e condividere cosa significhi DONARE SE STESSI nella vita di tutti i giorni (inviare contributi a l.lucca71@gmail.com ) . 

GOOD NEWS!!

Un articolo di Caselli che racconta le meraviglie che si possono realizzare nel mondo delle carceri. Anche ad Alba si realizzano miracoli, ne “valelapena” è un esempio. Chiediamo a don Gigi Alessandria… Anche in altri ambiti si può operare attivando forze di bene (sanità, scuola…):  è trovare la perla preziosa, il tesoro da custodire, condividere, moltiplicare, è il “di più”, il “sapore della vita”. Buone notizie da conoscere, esperienze da condividere ed estendere, danno gioia e pienezza ai piccoli gesti quotidiani.

 

I fatti terribili successi nel carcere di Torino, dei quali è in corso la verifica investigativo-giudiziaria, non possono cancellare la lunga tradizione di attività trattamentali anche innovative che lo hanno contraddistinto a partire dagli anni 80.

L’elenco è lunghissimo. Con la gestione di una delle prime “aree omogenee” per instaurare un dialogo costruttivo con i terroristi dissociati; i primi approcci comunitari con i malati di Aids; i corsi per ebanisti dell’istituto Plana; lo sviluppo del polo universitario e la comunità per tossicodipendenti “Arcobaleno”: si avvia una sorta di staffetta di umanità penitenziaria (pur a fronte di crisi enormi date dal perenne sovraffollamento), poi sviluppata dal direttore Pietro Buffa, “scovato” ad Asti da Francesco Gianfrotta, un giudice torinese che allora lavorava col sottoscritto a Roma nel Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Così Torino registra, dal 2000, una sequenza di risultati imponenti.

Detenuti che studiano e conseguono un diploma o la laurea e detenuti al lavoro nelle cooperative. Corsi di formazione per il personale che, con ruoli diversi, opera in carcere. A riprova del nuovo clima determinatosi nell’istituto crolla, fino a rimanere azzerato per anni, il numero dei suicidi. Per rimediare al “vuoto” del tempo carcerario si crea una “scuola accoglienza” che ruota mese dopo mese nei reparti più difficili, con eccellenti operatori che oltre a insegnare cercano di ridare alle persone un po’ di dignità.

Si apre la sezione Sestante, pensata per il trattamento del disagio psichico non collegato al reato commesso e gestita da personale specializzato dell’Asl, in anticipo sull’attuazione – che avrà inizio molti anni dopo – della riforma della tutela della salute in carcere.

E poi esperienze ludiche ma non meno importanti per dare una certa vivibilità a quel mondo rinchiuso: il “torneo della speranza”; il teatro sociale, che negli anni ha avvicinato la città a quel suo pezzo separato, isolandolo un po’ di meno; e poi la “Drola”, prima squadra dì rugby inventata dietro le sbarre da un inossidabile operatore, sempre pronto – coi suoi baffoni bianchi – a fare del bene con una palla ovale.

Risultati straordinari, che han Ifatto del carcere di Torino un istituto aperto alla città e proiettato sul territorio che riceverà il detenuto una volta scontata la pena. Offrendo la dimostrazione concreta che “un altro” carcere è possibile; che la pena detentiva può essere davvero una pena utile: nel senso che se scivola nelle spirali della persecuzione vendicativa, finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto è stato ferito. Il colpevole deve essere punito secondo le leggi, ma se (quando lo accetti) non viene aiutato a capire – anche con le modalità di espiazione della pena – il perché del suo errore, la punizione incattivisce chi la subisce, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile.

Si tratta di una “mission” che deve essere condivisa e perseguita con convinzione da tutte le componenti dell’universo penitenziario. Quando ciò si verifica, molto dipende dal carisma di chi governa la peculiare complessità di un grande istituto penitenziario. In una perenne calca detentiva che spesso supera di molo la capienza regolamentare, la popolazione di un singolo carcere comprende, inevitabilmente, persone dal profilo molto diverso: classificate in alta sicurezza e in regime di custodia attenuata; non classificate e sex offenders; stranieri e tossicodipendenti; con pene brevi o medio-lunghe; o “semplicemente” in attesa di giudizio.

Rispetto a ciascuna di queste categorie ambiente e regime detentivo devono essere diversi. Per ottenere da tutti i collaboratori un impegno mirato ad un trattamento differenziato dei detenuti occorre una riconosciuta autorevolezza del direttore: interfaccia di un modo fermo, non autoritario, di rapportarsi a quanti lavorano in carcere e di un atteggiamento lungimirante, non buonista, con cui affrontare i problemi.

Tutto ciò si è verificato per anni nel carcere di Torino. Che ovviamente non è mai stato un luogo felice o ameno, ma per decenni è stato un posto dove il lavoro di alcuni suoi direttori e di tantissime persone da loro sapientemente coinvolte ha cercato di dare una speranza.

Il più bel riscontro, oltre ai riconoscimenti che il ministero della Giustizia ha tributato, magari adottando a livello nazionale alcune prassi penitenziarie torinesi, lo si deve al sindaco Chiamparino, secondo cui il carcere della città non ha mai rappresentato un problema del quale preoccuparsi o vergognarsi ì: era anzi stato un continuo stimolo da seguire nella sua creatività ed umanità. A questo modello, nonostante la bufera contingente, si deve tornare al più presto.

Con il contributo di tutti, a partire dai dirigenti nazionali del Dap fino a ogni componente sana o rinnovata del personale torinese. E con il sostegno dell’amministrazione e dei politici locali, oltre che della società civile in tutte le sue articolazioni: perché la civiltà di una comunità si misura anche da come funziona il carcere che ne fa parte.

TRASPARENTI COME LE VETRATE!

Cercare il regno di Dio nella vita di tutti i giorni….quindi anche nel clima arido e nell’ arsura che stiamo vivendo in questo periodo! Non ho la bacchetta magica e quindi penso che si debba partire dalle piccole cose come un saluto, un sorriso,  accorgersi che c’è l’ Altro e considerarlo. Noi non siamo chiamati a giudicare ma ad amare e perdonare.
Mi vengono in mente le vetrate della Chiesa dove canta il coro. Se non ricordo male in una è raffigurato il Cristo Risorto e nell’ altra c’è Gesù mentre spiega alla folla.
Aiutaci Signore ad essere trasparenti come le vetrate perché la tua luce possa passare attraverso di noi nei piccoli gesti quotidiani e così raggiungere ogni persona.
Aiutaci a ricordare che siamo sempre servi inutili ma non perché non valiamo niente ma perché abbiamo solo fatto ciò per cui siamo stati mandati.

IL GUSTO DELLA VITA

Il Gusto della vita

Le parabole del Vangelo Mt 13,44-46 contengono due immagini di “ricchezza”: il Regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo ed è simile ad una perla preziosa di grande valore. La vera ricchezza consiste nello scoprire questo Tesoro perché è tutto lì il “Gusto della vita”.

Che cosa ci serve per vivere? Non per sopravvivere (per questo basta un po’ d’aria e un po’ di cibo), ma per desiderare la vita, per crederci, per volerla davvero. Alcuni dicono che per vivere sia necessario saper soffrire; altri ritengono che basti avere una buona forza di volontà; altri ancora osannano la rassegnazione, consigliando di non farsi troppe domande, di accettare passivamente e di accontentarsi; altri sottolineano il dovere, l’obbedienza alle leggi, ai supremi principi.

Io credo che per vivere occorra trovare qualcosa di bello. Sì, la cosa fondamentale è trovare qualcosa di bello nel lavoro, nelle relazioni, nella casa in cui abiti, nel paese dove risiedi. Trovare qualcosa di bello, che ti attragga, ti appassioni, ti metta in moto. Trovare qualcosa di bello che ti faccia toccare con mano il gusto della vita. Senza gusto, senza stupore, senza senso la vita diventa un’inutile condanna. Ci vuole qualcosa di bello che tocchi i tuoi sensi e ti riaccenda il desiderio. Affinché la quotidianità non diventi banale e asfissiante. Spesso la vita sembra insipida. E ci stanca. Come mangiare una minestra senza sale. Per questo dobbiamo lavorare per trovare le cose belle. Che sono stelle che illuminano le nostre notti. E riaccendono la vita”. 

(Mons. Derio Olivero: Il gusto della vita. Effatà Editrice, 2019)

SCAVI…

IL TESORO DELL’ AMORE 

In tutti i tempi l’amore deve vincere il sospetto, sempre bisogna accettare il rischio e fidarsi, uscire quando le ragioni per stare chiusi dentro sembrerebbero essere più serie e gravi. Altrimenti la vita lentamente ma inesorabilmente si trasforma in un LUTTO, la casa diventa una TANA, la strada finisce in un VICOLO CIECO. infatti, l’amore che noi ci mettiamo non è tanto un regalo fatto all’altro, quanto un dono offerto a noi stessi per scommettere su un DI PIÚ di vita, per rilanciare la posta dell’esistenza. L’amore è un’apertura di credito verso la nostra contabilità che diversamente sarebbe fatta di quattro conti con i quali non ti compreresti niente. Non ragionare, ama! E quella stessa vita che ti sembrava arida e desolata ti tornerà in grazia. Ama e troverai quello che cerchi. (Lucio Coco, Piccolo lessico della modernità) 

DONARE TESORI

DOV’È IL TUO TESORO LÀ SARÀ ANCHE IL TUO CUORE

E dov’è il tesoro nel mio cuore?

Condivido questa pagina che mi ha fatto riflettere.

“Dice un verso del Qohelet: manda il tuo pane sopra i volti delle acque, lancialo alla corrente, a sasso, al mondo, il pane, il tuo indispensabile, il dono di se stessi, del proprio tempo, del proprio sangue, di un organo, della vita tutta intera, non esiste offerta così priva di tornaconto. “Questo è il mio pane”, disse il donatore di se stesso una sera di Pasqua nella città in collina, in quell’ultima cena si preparava a offrire il pane di se stesso alla corrente del mondo a venire, alle generazioni future.

Manda il tuo pane sopra i volti delle acque, “shallah lahmekhà al penè hammàim”, il verso antico in ebraico scroscia e gorgoglia come una corrente dentro l’applauso del fiume.

La seconda metà del verso dice “perché in molti giorni lo ritroverai”, una vecchia traduzione un po’ sbagliata dice “perché lo ritroverai dopo molti giorni”, ma è troppo povera  e simmetrica questa restituzione, quello stesso pane offerto così generosamente e poi viene rimborsato uguale e pari dopo molti giorni, no, la lettera ebraica dice “in molti giorni”, allora vuol dire che quella singola offerta ti verrà restituita in molti giorni, ti verrà rimborsata incalcolabilmente di più.

Ecco che questi versi raccontano della economia sovversiva del dono, del gratis, dello spariglio che riceve in cambio una restituzione gigantesca.

Questa è l’economia del dono che butta gambe all’aria i pareggi di bilancio, le partite doppie dare e avere, grazie al gratis, si tratta del dono da VITA A VITA.

Racconta un vecchio apologo che l’inferno è una tavolata dove ciascuno sta davanti a una ciotola di riso e ha come strumenti dei bastoncini ma che sono troppo lunghi, smisurati, così nessuno riesce a mangiare. Il paradiso invece è la stessa tavolata, con la stessa ciotola di riso e gli stessi bastoncini lunghi ma dove tutti si nutrono perché ciascuno con quei bastoncini lunghi nutre quello che gli sta di fronte.

Non è utopia, esiste già l’economia del dono e il mondo già si regge sul mutuo soccorso, sull’offerta del proprio tempo libero, del proprio sangue, degli organi della vita stessa.

Non è utopia, esiste già.

E quando sparirà il sistema artificiale delle monete resterà l’economia del dono, resisteranno quelli che l’avranno saputa praticare”.

                                   (Introduzione di Erri De Luca al libro DONO di E. Imprescia)

Non lo so ma voglio credere che il tesoro sia proprio nascosto lì nell’azione del donare.         «Donare per cambiare un destino e per ridisegnare una vita. Donare è VITA»

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

CHIEDIMI QUELLO CHE VUOI … 

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».

Com’è andata la settimana del grano e della zizzania? Abbiamo saputo vedere, in mezzo alle cose che non andavano, promettenti chicchi di grano buono, “profezie di pane”? Abbiamo saputo vivere pensando soprattutto alla promessa di questo “positivo” senza essere sopraffatti dal male? Oggi, nella prima lettura, Dio compare in sogno a Salomone e gli dice: “Chiedimi cosa vuoi che io ti conceda”. Domanda che fa tremare le gambe e il cuore … e se sbagli? Quando ricapiterà un’occasione del genere? Salomone propone a Dio di donargli un cuore DOCILE e CAPACE DI DISTINGUERE IL BENE DAL MALE. Un cuore docile, anzitutto, non è un cuore molle o imbranato, ma un cuore “che va a scuola”, che impara dalla vita e dalle sue lezioni, belle e brutte, continuamente, e sa che questa è l’unica scuola che non chiude mai … E poi, capace di distinguere il bene dal male, ossia consapevole di non saperlo fare da solo, ma di avere bisogno di una Maestro, magari Divino, prima di definire qualcosa con quelle specifiche qualità. Dio apprezza questo grande desiderio di Salomone. Questo lo renderà un saggio re, il più saggio. Il Vangelo anche per noi, alla scuola che va “da una domenica all’altra” diventa SCUOLA del BENE, scuola di quei tesori che, tra le cose di questo mondo, riaccendono desideri alti e responsabilità profonde e non demandabili in grado di farci “andare”, “pieni di gioia (forza interiore)” e trovare ciò che rende veramente preziosa la vita, campo di battaglie inesauribili dove la vera domanda autenticamente liberante e  identificativa non è “chi sono io?”, ma “per chi sono io?”.  

Attenti alle richieste che facciamo, perchè ci sarà fatto secondo le nostre parole. 

Questa settimana proviamo a pensare e condividere cosa significhi CERCARE IL REGNO DI DIO nella vita di tutti i giorni (inviare contributi a l.lucca71@gmail.com ) .