SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

VIAGGI …

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».  Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti. (Vangelo di Marco) 

La Quaresima è un viaggio: domenica scorsa siamo partiti dalla pianura del deserto –  dove satana tentava Gesù cercando di mettere in forse le sue intenzioni e la sua “mappa” dell’itinerario di una vita affidata al Padre e donata ai fratelli – per arrivare, oggi, a un monte, un alto monte – segno di capacità di “elevazione” di sguardi e orizzonti – dove tre discepoli fanno una esperienza più profonda della verità del Signore. 

Viaggiare verso la cima di  un monte e goderne la meta comporta almeno  tre movimenti: salire, restare e scendere. Tre movimenti che, a ben pensare, appartengono a tutte le dinamiche delle scelte che facciamo quotidianamente. 

C’è un salire che è fatica, che è rinuncia di altre strade, che è affrontare l’imprevisto, ma che è assolutamente imprescindibile per raggiungere la meta. Dopo la fatica, però, si gode del traguardo raggiunto e occorre stare per guardare, percepire, imparare, assumere, contemplare e “fare qualcosa” del bellissimo luogo che si è raggiunto grazie al  proprio impegno. E infine, bisogna scendere. La discesa dal monte – e più in alto si va più la sensazione di infinito e bellezza è ampia – a volte è addirittura più faticosa della salita, perchè dobbiamo “portare in basso” quello che abbiamo “visto in alto”, moltiplicare per altri quello che abbiamo visto per noi, condividere in concretezza quello che ci sembrava la promessa di un paradiso troppo lontano dalla realtà. Eppure, questo è il viaggio, e proprio così Gesù è stato l’autentico Maestro che ha portato la presenza del Padre nella concretezza irripetibile della nostra carne. 

Il “viaggio-quaresima” diventa anche per noi l’opportunità irripetibile, in questo anno, per rivedere le nostre mappe personali: dove stiamo camminando? Chi ci sta guidando? Chi seguiamo? Cosa vogliamo? Per chi viviamo? Ci dirigiamo verso la vita della Pasqua che moltiplica altra vita o camminiamo per un semplice “andare senza direzioni”? Siamo fortunati, se ci rimettiamo sul sentiero, “presi e condotti da Gesù”: capiremo cosa significhi ogni giorno “risorgere dai morti”! 

LA CONGIUNZIONE “ANCHE”, COLLEGAMENTO TRA FRATELLI CON L’AIUTO DI CRISTO

Il 29 novembre 2020 tutte le parrocchie hanno adottato il nuovo messale della madre chiesa romana, che diventerà obbligatorio in tutte le parrocchie italiane a partire da Pasqua, il prossimo 4 aprile 2021. La nuova traduzione messale introduce alcune modifiche, tra le quali la preghiera del Padre nostro.

Una prima modifica consiste nell’introduzione della congiunzione “anche”: rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori.

Prima di commentare il senso di questa aggiunta, occorre precisare che rimettere i debiti significa perdonare i peccati ed il perdono dei peccati è un atto che va oltre la nostra umanità.

Antony De Mello(1), scrittore nato a Mombay, ha detto una volta: “le tre cose più difficili per un essere umano non sono attributi fisici o capacità intellettuali. Sono queste: primo, restituire amore in cambio di odio; secondo, coinvolgere gli esclusi; terzo, ammettere di avere torto”. 

Dunque, restituire amore in cambio di odio, ovverosia perdonare le offese, è un atto che possiamo compiere solo con l’aiuto di Dio.

Nella preghiera del Padre nostro la congiunzione “anche” rafforza la presenza del Signore nella fatica assunta dall’essere umano a perdonare.

Perdoniamo insieme, con l’aiuto del Padre nostro e così recitiamo: Padre perdona a noi come anche noi perdoniamo insieme a te e come te. Imploriamo la Tua misericordia, consci che essa non può giungere al nostro cuore, se non sappiamo perdonare anche noi ai nostri nemici, sull’esempio e con l’aiuto del Padre.

Il perdono reso possibile dall’aiuto di Dio, con l’aggiunta della congiunzione “anche”, ritrova ulteriore completezza. Infatti, la congiunzione “anche” racchiude sia umiltà che reciprocità, oltre a risultare una fonte di unità e d’inclusione.

Anche viene a rinforzare l’umiltà, perché perdonare non è una prerogativa umana se non attraverso Cristo, non è un atto della nostra umanità, occorre sperimentarlo per viverlo con l’aiuto di Dio, per provare la pace dentro e fuori di noi ed insieme ai fratelli. 

Ecco che la parola ci invita a superare umilmente la nostra umanità quando ci esorta: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5,23).

La congiunzione “anche è “reciprocità” perché non è mai a senso unico: come giudico me stesso e come desidero il perdono per me stesso, così giudicherò anche gli altri e sarò disponibile ugualmente al perdono.

Tolta l’offesa e il suo veleno, ognuno va per la propria strada?

Nella preghiera del Padre nostro la cancellazione dell’offesa, anche se non è necessariamente l’oblio dell’episodio doloroso, porta alla nascita di un nuovo scenario. Ecco dove la congiunzione “anche” diventa unità.

L’avvicinamento e il riconoscimento della similitudine nella condizione umana genera l’unità che supera ogni conflitto, lascia posto alla fratellanza. 

Ecco dove la congiunzione “anche” acquista potenza dilagante dell’amore che diventa inclusione: nella misura con la quale saprò perdonare sarò perdonato perché, per riprendere il titolo di questa pagina, “siamo tutti sulla stessa barca”.

Tutte le volte che ci rivolgiamo al Signore attraverso la preghiera del Padre Nostro pronunciando “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” attuiamo un rinnovamento di cammino di riconciliazione con i fratelli che culmina con l’unità che non lascia nessuno indietro, soprattutto in questo preciso momento qualificato da Papa Francesco come tempo della domanda ai fratelli: “di cosa hai bisogno e risolvere”, proprio perché nessuno si salva da solo. Soprattutto quando “Siamo tutti sulla stessa barca”.

(1) Antony De Mello (2019) – Messaggio per un’aquila che si crede un pollo. Ed. Pickwick.

Caterina Pasini e Anselme Bakudila

3 risposte a ““SULLA STESSA BARCA””

  1. Bravissimi Caterina e Anselme! Che bella questa riflessione! Al primo approccio, l’inserimento della parola “anche” può sembrare insignificante, una formalità, ma voi ci avete dimostrato che così non è! Grazie!

  2. Molto bello e profondo grazie. Mi ha colpito la frase “l’avvicinamento e il riconoscimento della similitudine nella condizione umana genera l’unità che supera ogni conflitto, lascia posto alla fratellanza”. In questo momento storico sembra quasi che tutto questo sbiadisca, si stia allontanando chiudendo occhi, orecchi e cuore. Ma noi ce la faremo. Grazie ancora.

SULLA STESSA BARCA

Cos’è? – La pagina “Sulla stessa barca” è dove l’uomo attinge, racconta, accoglie idee, pensieri e convinzioni secondo cui esiste la speranza al cambiamento delle cose. È una condivisione che ambisce, a immedesimarsi, come sorelle e fratelli, nella domanda: “ed io cosa posso fare?”.

 

La risposta è: trarre lezioni, prendere posizione e, dove possibile, intervenire.

Un viaggiatore in poppa ad una nave non direbbe non sono fatti miei, quando i passeggeri in prua alla stessa imbarcazione gridano aiuto alla vista di un foro da cui entra l’acqua”

Papa Francesco, durante l’intervista dal titolo “Il mondo che vorrei”, andata in onda il 10 gennaio 2021 su Canale 5, esorta il mondo a uscire migliori dalla crisi odierna, evitando la doppia sconfitta, quella legata alla crisi in sé e quella di uscirne peggiori, semmai ritornassimo a condurre la vita come prima.

I grandi valori, afferma il Pontefice, ci sono sempre e sono insiti nella cultura. Non cambiano mai nella storia: ciò che cambia è l’espressione degli stessi valori con la cultura del momento.

Guerre, distruzione, ingiustizia sociale, egocentrismo – detto anche “IO” che prevale sul “NOI”, la cultura dello scarto, ossia considerare inutili coloro che non producono profitto (anziani, ammalati, bambini, immigrati bisognosi) e si scartano…  sono gesti e comportamenti che generano l’allontanamento tra le persone. La cultura dell’indifferenza, “il sano menefreghismo”, non è in nulla “sana”.

La risposta – almeno una delle risposte- che ci porta a uscire migliori dalla pandemia è la cultura della fratellanza. La fratellanza non è il club degli amici, non vuole dire una creazione di un circolo esclusivo di amici, ma è inclusione. È la capacità di seminare la speranza, di ritrovare un senso di comunità e viverla insieme.

La comunità è consapevole di essere tutti sulla stessa barca da interdipendenti e, come dice Papa Francesco,” nessuno si salva da solo” .

Ci salveremo tutti insieme o non si salverà nessuno.

La pagina “Sulla stessa barca” si guarda intorno, vuole entrare con rispetto ma in maniera dirompente nella storia delle persone, membri della comunità umana, raccogliere testimonianze, esperienze e stimolare ognuno a scegliere ad agire con la parola, la preghiera e/o con le opere, aiuta a prendere consapevolezza di ciò che ci circonda e guida l’audacia dell’agire, che nasce con il sapere.

Benvenuti a tutti, fratelli e sorelle, consapevoli compagni di un viaggio, tra passeggeri e marinai, dove Cristo è sia mezzo che metà.

Noi combattiamo il Covid-19, ma quanti milioni muoiono per altri virus?

Molti di noi hanno sperimentato come nel 2020, ma ancora nel 2021, sia stato triste vedere vicini e familiari ammalarsi di un virus in molti casi mortale e non poter fare nulla. 

Ma, come ci ricorda don Renato Rosso, missionario in Bangladesh, (Gazzetta d’Alba, 24 gennaio 2021 – Don Renato Rosso, “Voi combattete il Covid-19, ma quanti milioni muoiono per altri virus?”) in altre parti del mondo, meno titolate nei notiziari televisivi e negli articoli dei quotidiani, esistono altri virus, distanti da noi, ben più pericolosi: la malaria, la Tbc, la denutrizione. Nel 2020, solo in Italia le vittime del Covid-19 sono state oltre 75mila, mentre nell’altro mondo (Africa Sub-Sahariana, India, America Latina e Centrale), quasi un milione di persone sono scomparse per la malaria, oltre quattro milioni e mezzo per la Tbc e più di undici milioni per denutrizione (o a causa della fame), senza contare tutti gli altri morti anonimi.

In America o in Europa non era un problema se in Africa o in Asia o in Sudamerica moriva qualche milione di persone in più o in meno per quei virus di cui sopra, o per carestie, o cicloni, o terremoti: vedere i propri raccolti distrutti da un tifone, gli animali che muoiono per la carestia, vedere i figli ammalarsi perché senz’acqua e senza cibo, e poi morire. 

La morte di un africano o asiatico non è mai stata un problema, perché valgono poco, apparentemente non producono nemmeno per la loro sopravvivenza e certo molto meno per il mercato. Per una società in cui il primo valore è il denaro, chi non produce è inutile, se non dannoso, perché finisce per mendicare alle porte degli Stati ricchi. Prende posto l’indifferenza, l’emarginazione ma quanti sanno dell’attuale tragedia del popolo Rohingya birmano o del quotidiano omicidio di massa in corso in Congo-Kinshasa? Eppure, il riso coltivato dai Rohingya finisce sui nostri piatti e andiamo fieri degli smartphone, computer e auto elettriche fabbricati con i minerali congolesi. Gli occhi e le orecchie chiusi sull’epidemia di difterite e morbillo dei Rohingya e sull’ebola usata come arma di guerra in Congo-Kinshasa. Un piccolo virus costringe il mondo intero a comprendere cosa succede altrove da molti anni. 

L’esperienza del coronavirus ci ha dimostrato che tutti questi problemi sarebbero risolvibili e in tempi brevi. In meno di un anno si è trovato un vaccino contro il Covid-19. Invece il mondo come quello abitato da don Renato Rosso, che è quell’altro mondo, dopo decine di anni continua a essere flagellato da tutti gli altri virus con milioni di morti.

Il mondo occidentale, il mondo economicamente avanzato, tecnologico, perfezionista e poco attento ai guai provocati dalle malattie è stato messo in ginocchio da un virus invisibile, il SARS-CoV2. Soprattutto il nostro mondo avanzato ha cominciato a capire cosa vuol dire dipendere e piegarsi sotto il peso delle malattie.

In questi mesi, su Tv e giornali si è molto parlato dei vaccini, delle statistiche in Italia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti. Abbiamo sentito qualche intervento o tavola rotonda per riflettere sul Terzo mondo? Eppure, là ci sono miliardi di nostri fratelli e sorelle. Negli ultimi vent’anni sono stati fatti molti progressi e questo ci dice che è possibile sperare in un 2021 più umano e più creativo nella solidarietà. Nessuno si scoraggi, dunque, né si lasci vincere dalla paura di non farcela: la consapevolezza di stare “sulla stessa barca”, e di far parte di una umanità in diversi modi fragile e ferita, è stimolo di condivisione e possibilità di speranza e promozione umana. La domanda è dunque lanciata verso tutti i figli dello stesso creato: è forse giunto l’ora di conoscere sia il prossimo che il vero mondo dentro cui viviamo? 

Claudio Rainero

Risultato immagini per covid e terzo mondo

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

Suggestioni da deserto …

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

Mentre gli evangelisti Marco e Luca sono molto precisi e si dilungano a raccontare le tentazioni di Gesù che combatte satana nel deserto – rinunciando alle  seducenti chimere  dell’avere, del comandare e dell’apparire come bussole esistenziali – Marco,  molto lapidariamente scrive tre parole: “tentato da satana”. Tre parole che dicono tutto. Tre parole che si compiono nell’arco di QUARANTA giorni, dove il quaranta indica una completezza, come  il tempo di  Mosè sul Sinai, di Elia sul monte Carmelo, del popolo di Israele nel deserto … come dire: una vita! La vita è così, una continua tentazione di cambiare strada dall’inizio alla fine, attratti da quanto anziché darci la vita ce la toglie! Gesù nel deserto scende in un silenzio pieno di frutti che porta a scegliere il Padre e la strada della vita, là dove si avrebbe voglia di volgerGli le spalle a favore del proprio assoluto tornaconto. 

Ma Dio è sempre attento a indicare la strada della vita ai suoi figli. Già dall’AT implora il suo popolo di scegliere la vita anziché la morte. Questa settimana nella liturgia delle messe feriali si levava alta la sua supplica a Israele che stava attraversando il deserto nel suo cammino verso la Terra Promessa. Nel Libro del Deuteronomio diceva: “io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità” e poi rincarava e approfondiva il profeta Amos: “Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e il Signore sarà con voi” … Gesù ricorda questa cosa all’uomo dominato dallo spirito impuro nella sinagoga, subito dopo la pagina del deserto appena letta,  quando viene accusato: “sei venuto a rovinarci!” … (la stessa accusa che il divisore continua a sussurrare alle nostre orecchie: “è venuto a rovinarti, lasciaLo perdere quel Gesù, cosa stai a sentire il Vangelo, sono tutte storie, non fidarti,  pensa a te stesso, invenzioni dei preti, fa come tutti, eh che sarà ?!” Ecc. ecc. ecc … ) … Gesù invece libera quell’uomo per ricordare a lui e a tutti che non è venuto a rovinare noi, ma a rovinare tutto ciò che ci rovina! 

E noi, ci crediamo? Sarebbe bello fermarsi cinque minuti, domani o questa settimana, per collegare le nostre tristezze, i nostri sensi di mancanza di compimento, i nostri vuoti con le loro radici: “perchè sto così? Cosa sta generando questo stato delle cose? Le mie scelte portano alla vita o alla morte?”. Chi vorrà scegliere Gesù come “alleato” per darsi delle risposte … potrà trovare sentieri che portano  alla vita. 

Buon attraversamento a tutti!

QUARESIMA – MERCOLEDÍ DELLE CENERI

Scrive un monaco che vive nel deserto: “Convertirsi è riscoprire ciò che è davvero essenziale alla nostra vita, il senso profondo dell’esistenza, il vero nutrimento, la vita in abbondanza, la realtà duratura che non passerà. Come Cristo nel deserto, in Quaresima siamo chiamati a sperimentare più intensamente che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Ma ciò è possibile solo andando nel deserto. Solo lì, abbandonate superfluità e superficialità, possiamo ascoltare la voce di Dio che ci attira verso casa“.

Proviamo a prendere un foglio o un quaderno  e a scriverci in cosa vogliamo fare consistere il nostro DIGIUNO, la nostra ELEMOSINA e  la nostra PREGHIERA in questa QUARESIMA 2021.

Ripulire e purificare questi canali, troppe volte disattesi o otturati,  che ci riportano a contatto con noi stessi (DIGIUNO), con gli altri (ELEMOSINA) – rendendoli prossimi –  e con Dio (PREGHIERA) ci permetterà di trovare sicuramente un nuovo  e più profondo equilibrio che ci renderà nuovi e in grado di gettare  sguardi e fare dei gesti liberanti nel mondo!

Di tutto cuore:  BUON CAMMINO A TUTTI!

Alle 17,30 ci si incontra “via video”!

 

SESTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Ma vuoi?… 

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Leggi tutti questi bei Vangeli della domenica ma poi ti chiedi: “cosa me ne faccio?”.

Sì, è bello, anzi, bellissimo, sapere che Gesù “vuole e può” (“se tuoi vuoi puoi guarirmi”, dice l’uomo divorato dalla malattia) . É bello sapere che Gesù guarisce un lebbroso, lo tocca, ha compassione di lui… Consolazione che può prolungare i cammini verso qualcosa, anziché farci brancolare nel nulla (“lo rivedrò, ci sarà un senso” ) … e c’è una bella differenza, infatti,  a sapere che stai facendo delle salite faticosissime che ti spezzano le gambe, che continui ad alzarti perchè sai che ogni passo avanti ti porta verso una meta, seppur lontana e non ancora a disposizione, piuttosto che non sapere niente e non avere delle direzioni.

Eppure rimani in quella fatica, a volte vieni abbandonato dalle persone che per te erano importanti, la cui “lebbra” non è potuta essere guarita … sai che lo sarà, ma intanto? Perchè – ti chiedi – se Gesù ha potuto non ha voluto? Perchè se vuole, e il Vangelo ce lo dimostra, lo può fare. Invece se (non) può e in questo momento ti sembra non volere, ti dici, a cosa serve credere in Lui?

Forse la risposta rimane ancora e solo la speranza compassionevole di/in  Gesù, che condivide e affida a noi i gesti della cura possibile e fattibile; forse la speranza è stare con un Signore che ci accompagna da “fatto come noi”. Gesù alla fine del Vangelo, infatti,  diventa IL LEBBROSO DELLA SITUAZIONE, che tra l’altro non viene obbedito dall’uomo che è stato guarito (proprio come Dio non sembra obbedire a noi) e va in giro a proclamare quello che ha visto (ma come poteva non fare altrimenti?).

Penso a come capita in ogni gruppo, dove inizia qualcosa di nuovo e vitale in te quando capisci che la tua guida è uno che non ti impone delle cose dall’alto, ma condivide con te un cammino, lui nella sua storia e tu nella tua, dove le parole che ti dice coincidono con quello che è, dove ti senti amato perchè ti senti totalmente capito.

Il miracolo della storia della salvezza, forse,  sta proprio nell’incominciare a vivere fidandosi perchè hai capito che chi ti parla “si è fatto come te”, lebbroso come te, morente come te, desideroso di gesti di guarigione e creazione come te, per arrivare ad accogliere  e fare capitare una vita piena, proprio come … a Lui e a te!. 

QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Donna, malata… e suocera! 

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni. 

(Mc. 1, 29 –  39) 

Ce le aveva tutte la poveretta: era donna, era suocera, era malata. Perchè la vita a volte è così: si accanisce, si mette a mordere le giunture e a rosicchiare le ossa della sopportazione  del suo  peso e in quel momento non si sa più cosa fare: che ti venga anche una febbre che ti stende a letto è il minino. Per lo meno come reazione. 

In una società, poi, dove la donna contava veramente poco, in cui si è  suocera (magari anche anziana, ma questo non lo sappiamo), anche una piccola febbre è un grande problema, perchè la donna mettendosi a letto deve farsi servire anziché servire gli altri. Mi sembra ampiamente irrilevante come una  pietruzza che ti si infila nella scarpa: che sarà rispetto ai grandi mali? Intanto tu non puoi più camminare bene, e tutto risulta compromesso. 

Ci sono due cose che fanno un vero e proprio miracolo e possono fare la differenza.

a. La prima è che c’è qualcuno che se ne accorge e fa qualcosa: avvisa il Maestro, lo fa SUBITO, senza aspettare troppo tempo. Più tardi, di notte, invece, qualcuno  “porta” i malati davanti a Gesù.  Ci sono dei mediatori che parlano, che portano, che permettono che qualcosa possa accadere. Non faranno i miracoli, ma li permettono. Questo è già miracoloso. Roba non da poco.

b. E poi Gesù, che fa il miracolo scomponendolo in gesti di una tale umanità che possono diventare appannaggio del nostro modo di “muoverci” accanto a chi soffre: SI AVVICINA, RIALZA e PRENDE PER MANO. Come dire: “io ci sono, fattivamente. Io non ti alzo, ma ti offro qualcosa di me, del mio tempo, delle mie capacità, che permette a te di rialzarti. Ti dò la mia mano: curo, proteggo, abbraccio, circondo, scaldo”. (Notiamo anche che “non dice una parola”, non consola dicendo che la sofferenza ci salva, fa solo dei gesti di amore). 

Intanto continua quella giornata iniziata sulle rive del lago di Galilea. Dove i discepoli IMPARANO IL MAESTRO stando con Lui, o meglio, seguendolo, perchè Gesù è imprendibile, solo “seguibile”, e solo in quel movimento perpetuo di inafferrabilità (costitutivo di chi è libero e non si fa possedere da nessuno, neanche dal successo e neanche dagli inseguimenti celebrativi) si rivela rivelando a chi lo segue chi sia un discepolo: uno che scopre il senso della propria vita CAMMINANDO e FERMANDOSI. Uno che “beve” nei luoghi deserti del silenzio quando si mette a pregare quel Padre capace di ridare le energie per ricominciare luminosi e nutriti mattini … di nuovi cammini. Interminabili ma destinati al grembo di ogni cosa, anche laddove c’è la febbre da curare, anche se tutta la città (tutta!) si raduna davanti alla porta e tu non riesci a fare niente. Ma ci sei e ti avvicini, dai la tua mano, alzi e permetti qualcosa. Possiamo farlo anche noi!