QUARTA DOMENICA DEL TEMPO DI PASQUA

AGNELLI E PASTORI 

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta: “Io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende “buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l’unico, che mette sul piatto la sua vita. Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita.

Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata.

Il mercenario, il pecoraio, vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano, io gli importo. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E mi commuove immaginare la sua voce che mi assicura: io mi prenderò cura della tua felicità.

E qui la parabola, la similitudine del pastore bello si apre su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di irreparabile. E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro Dio differente, il pastore che per  salvare me, perde se stesso.

L’immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che vanno oltre gli aspetti realistici della parabola (eccentrici li chiama Paul Ricoeur). Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più” che viene da lui, sull’impensabile di un Dio più grande del nostro cuore. Di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei mettergli fra le mani tutti gli agnellini del mondo. (E. Ronchi) 

SECONDA DOMENICA DI PASQUA – ANNO B

 IMMERGERE LE MANI E IL CUORE 

 

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

La fatica dei discepoli a riconoscere Gesù come vincitore della morte e loro Signore, che torna nella storia, è la stessa che siamo chiamati a fare noi, ogni giorno, riconoscendo il suo modo di donarsi e di essere il Salvatore. Tutto inizia allo stesso modo, quando le porte sono chiuse: come le nostre. Quante volte lo sono: per paura, diffidenza, scoraggiamento, delusioni della vita. Che bello questo Signore che ritorna a porte chiuse, di sua iniziativa, che ritorna ogni volta che, è vero, abbiamo paura, ma ci siamo di nuovo riuniti intorno a Colui che solo poteva, potrebbe e può dare senso al nostro stare insieme, anche se non lo vediamo. E ritorniamo. E nel nostro ritorno … appare la sua presenza. Una presenza che riguadagna un nuovo centro e augura una sola cosa: “pace a voi”! Ossia quella garanzia di stabilità che noi chiamiamo salvezza e significa la possibilità di ritrovare integrità, di rimettere insieme le tessere del puzzle dei nostri giorni, di bilanciare e unificare di nuovo, da capo, il nostro corpo, la nostra mente e il nostro cuore. Il principio della nostra energia parte sempre da questa osmosi ricercata e curata. Non possiamo vivere se il nostro cuore batte per qualcosa, la nostre mente è intenta a pensare altro e il nostro corpo compie azioni ancora diverse: è per questo che viviamo nell’epoca dello stress e della demotivazione, perché abbiamo liberato al loro destino questi tre aspetti, che soli uniti possono di nuovo costituire la forza della nostra personale integrità. E se dentro siamo disgregati non possiamo neanche portare la pace fuori di noi. Pasqua è la sfida di rimettere assieme i pezzi a partire dall’ispirazione del Risorto. E tutto questo, sempre a partire da un Risorto che è il Crocifisso, che ha preso su di sé le nostre ferite e la nostra morte per togliere loro il diritto di pronunciare l’ultima parola sul senso delle cose.  Che bello che abbiamo un Signore così! Non un “dio-sopra-le-nuvole”, ma Uno “fatto uomo” che conosce il nostro patire, le nostre lacrime e le prende sul serio a tal punto che, anche da Risorto, dopo avere donato la pace, mostra subito le ferite delle mani e del costato. Bravo Tommaso, fai bene a non credere a un Dio diverso da quello che ci mostra Gesù Cristo! 

PICCOLO LESSICO DEL TRIDUO PASQUALE (-45)

SABATO SANTO 

Oggi il mio augurio sul Sabato santo  parte da un’intervista fatta a padre Ermes Ronchi, due anni fa, su un giornale di informazione religiosa. Molto interessante, sintetizzo e modifico lievemente in alcuni tratti. 

Il SABATO SANTO è  il tempo del grande silenzio, del seme nella terra; è il tempo della serietà della morte, dell’attraversamento, della pazienza e dell’attesa.

Il Sabato santo, io mi immagino seduto di fronte al sepolcro a pormi la prima grande domanda di Gesù, ad ascoltarlo mentre mi chiede, come ai primi due discepoli: ma tu che cosa cerchi?

Chiediamoci che cosa realmente cerchiamo: è questa la domanda fondamentale. Qual è la cosa che desidero di più nella vita, nelle relazioni, nella fede, nella politica? Per me il Sabato santo è il tempo del desiderio. Davanti alla tomba e alla serietà della morte io mi chiedo che cosa desidero per me, per la mia vita e per il mondo: è da lì che si muove tutto.

Desiderio deriva da de-sidera, ha a che fare con le stelle. Esprime in qualche modo l’assenza, la nostalgia e la spinta verso le stelle…

Ha a che fare con le stelle e con l’attesa. Nel “De bello gallico”, Giulio Cesare narra che i desiderantes erano quei soldati romani che dopo la battaglia si arrestavano sulla soglia dell’accampamento per aspettare il compagno, forse ferito, che non era ancora tornato. I desiderantes attendono l’amico come noi attendiamo l’Amico, Gesù. Il desiderio è mancanza, ma al tempo stesso forza che mi sospinge oltre me stesso, verso l’Altro e gli altri. Del resto

la nostra vita avanza per potenza di desideri, non per obblighi o costrizioni.

Il Sabato santo è il momento in cui si è subito un trauma: muore il Signore, la speranza. 

Trauma viene dal greco e contiene l’idea di ferita, trafittura, di qualcosa che come una punta di freccia attraversa dolorosamente e va oltre affinché la ferita diventi feritoia per far passare la luce. Quante volte si rompe anche per noi l’anfora che noi pensavamo contenesse tutta la nostra vita. Un’anfora che non sarà ricostruita come prima perché il Signore disporrà quei cocci, che a noi sembrano inutili, in una forma nuova. Ne farà un canale affinché l’acqua non sia più trattenuta, ma sia libera di scorrere verso la sete di altri. Del resto la specialità di Dio è lavorare con i cocci rotti e trasformarli.

Dio, appunto. Nel silenzio e nell’attesa del Sabato santo, dov’è?

La sostanza di Dio è la sua comunione con noi. E’ dentro di noi e dall’interno ci illumina, riscalda e sospinge. Oggi non si celebra alcuna liturgia. In queste settimane di tempo liturgico “forte” sono mancate e continuano a non esserci celebrazioni pubbliche nelle chiese, ma c’è il mondo, e il mondo è la prima lettera di Dio scritta a noi; è la prima pagina della Bibbia e viene prima della parola scritta. E Dio è nel mondo.

Il dramma della passione e della morte oggi è ancora più reale; così il senso di attesa in noi. Un’attesa piena di speranza, oggi più che mai, nella resurrezione di una Pasqua senza liturgie pubbliche…

Nella solitudine del deserto degli Ordos, Pierre Teilhard de Chardin nel 1923 scriveva: “Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell’Aisne ma nelle steppe dell’Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della terra totale, il lavoro e la pena del mondo”.

Questo è liturgia: salire sulle vette delle fatiche, delle miserie e delle speranze dell’umanità, metterle sull’altare, e in forza del sacerdozio invocare sulla carne dell’uomo che si prepara a rinascere il fuoco dello spirito di Dio.

PICCOLO LESSICO DEL TRIDUO PASQUALE (-44)

VENERDI SANTO 

FEDE VERA 

No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!

Fede vera
è al Venerdì Santo
quando Tu non c’eri
lassù.

Quando non una eco
risponde
al suo grido

e a stento il Nulla
dà forma
alla Tua assenza.

Siamo quasi giunti al capolinea. Oggi Gesù muore in croce. 

Voglio condividere  il senso di questo giorno attraverso questa poesia,  che è una delle più belle che ho letto di David Maria Turoldo. 

Fede vera è il Venerdì santo. 

Fede vera è credere perché non si vede, ma non ci si può rassegnare al nulla che dà forma alle assenze. Sarebbe disumano. 

Fede vera è sapere che non c’è nulla di perso, nessuno smarrito, che “venerdì santo” non è morire per lasciarci ma per donarci quella vita che fa comprendere che Lui sarà sempre con noi e noi saremo sempre con Lui! 

Gesù ci autorizza a farlo. 

Ora, al di là dei sensi di colpa o dei nostri piccoli grandi oblii, questi giorni non ci servono a domandarci “quanto siamo in regola” con i nostri doveri di credenti, ma che cosa stiamo facendo per comprendere il messaggio di Gesù e del suo amore per noi. 

Oggi posso trovare uno spazio di silenzio per mettermi davanti alla Croce di Gesù? A che ora? Dove? 

PICCOLO LESSICO DEL TRIDUO PASQUALE (- 43)

GIOVEDÍ SANTO 

NON CAPIRE 

«Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo»

A Pietro Gesù dice così, a Pietro che non aveva capito Gesù, a Pietro che voleva impedirgli di lavare i suoi piedi … a Pietro che deve arrendersi e cambiare il suo modo di pensare Dio, ossia, a partire da Gesù, e non da se stesso. 

E noi? Chissà se noi che abbiamo letto questi Vangeli, che li conosciamo da tanti anni, ABBIAMO CAPITO QUELLO CHE GESÚ FA PER NOI?

Almeno questo. Non “quanto sono bravo?”, ma “cosa stai facendo, mio Signore?”. 

Forse sarebbe l’inizio della prospettiva che è in grado di cambiare la mia vita. 

E allora, si parte! 

Si entra nel Triduo Pasquale. Che sia un Triduo con lo sguardo sempre rivolto a Pasqua, che siano tre giorni di attesa, di “presenza a se stessi” e di consapevolezza di quello che sta capitando. Di tentativo di comprendere questo benedetto Gesù e di meditare il fatto che Lui, proprio Lui, lavi i piedi dei discepoli che non comprendono. 

Guardiamo avanti. Non “facciamo morire” questa Pasqua, perchè Pasqua è attivazione di sentieri di vita. A partire da quel pane preso, grato, condiviso, rifatto nella storia, ogni giorno. 

Oggi vi saluto con una poesia di Costantino Kavafis, che vuol essere un invito a non arrivare a Pasqua, ma di PARTIRE DA PASQUA!

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde, e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine dànno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

Come penso di vivere, concretamente, questo Triduo Pasquale? Provo a scrivere sul calendario il tempo da riservare a Gesù … perchè chi non calendarizza non concretizza. 

PICCOLO LESSICO QUARESIMALE (- 42)

Aceto 

Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto

I due versetti del salmo 68 tratteggiano bene la vicenda di Gesù che ormai sta volgendo al termine: veleno per cibo, aceto per bevanda. 

Cibo donato come corpo per la vita, per il bene, per amore, e veleno ricevuto, come tradimento, allontanamento, misconoscimento, rifiuto, inganno. 

Vino della letizia offerto, a partire dalla lontana festa di nozze di Cana, o acqua, ma di quella che non finisce  mai, alla samaritana e a ogni persona che “ha sete”, e aceto avuto in cambio, dai soldati che lo sbeffeggiavano o da bere in cima alla canna, con la spugna imbevuta. 

Non propriamente uno scambio equo. 

Eppure senza pentimento da parte del figlio di Dio, che di fronte ai gesti distruttori e di avvilimento dell’uomo, in una delle sue ultime parole rivolte al Padre dirà: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. 

Effettivamente non sappiamo quello che facciamo se guardiamo il mondo, o, per lo meno, non lo abbiamo ancora capito. Ma perché? Possibile che non capiamo che il veleno e l’aceto non riescono a nutrire e a dissetare le nostre essenze inaridite, non riescono a dare vita al mondo, non riescono a costruire nulla, non possono aprire strade nuove? 

Perché? 

Perché l’amarezza del tradimento di un discepolo, come Giuda? Come me (“sono forse io?”)?

Solo le favole finiscono con “vissero felici e contenti”, la vita non è così. 

Però … piccole differenze, sono certo, possono fare grandi cambiamenti. 

Io cosa darò da bere oggi al mondo? Come nutrirò le fami (compresa la mia) che mi si presenteranno lungo il mio cammino?