FESTA DELL’ASCENSIONE

SI ALLONTANÓ PER STARE PIÚ VICINO! 

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

Gli sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne, fedeli e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno amato molto, e sono venuti tutti all’appuntamento sull’ultimo colle.

Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù compie un atto di enorme, illogica fiducia in uomini e donne che dubitano ancora, affidando proprio a loro il mondo e il Vangelo. Non rimane con i suoi ancora un po’ di tempo, per spiegare meglio, per chiarire meglio, ma affida loro la lieta notizia nonostante i dubbi. I dubbi nella fede sono come i poveri: li avremo sempre con noi. Gesù affida il vangelo e il mondo nuovo, sognato insieme, alla povertà di undici pescatori illetterati e non all’intelligenza dei primi della classe. Con fiducia totale, affida la verità ai dubitanti, chiama i claudicanti a camminare, gli zoppicanti a percorrere tutte le strade del mondo: è la legge del granello di senape, del pizzico di sale, della luce sul monte, del cuore acceso che può contagiare di vangelo e di nascite quanti incontra.

Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, insegnate il mestiere di vivere, così come l’avete visto fare a me, mostrate loro il volto alto e luminoso dell’umano.

Battezzate, che significa immergete in Dio le persone, che possano essere intrise di cielo, impregnate di Dio, imbevute d’acqua viva, come uno che viene calato nel fiume, nel lago, nell’oceano e ne risale, madido d’aurora. Ecco la missione dei discepoli: fare del mondo un battesimo, un laboratorio di immersione in Dio, in quel Dio che Gesù ha raccontato come amore e libertà, come tenerezza e giustizia. Ognuno di noi riceve oggi la  stessa missione degli apostoli: annunciate. Niente altro. Non dice: organizzate, occupate i posti chiave, fate grandi opere caritative, ma semplicemente: annunciate.

E che cosa? Il Vangelo, la lieta notizia, il racconto della tenerezza di Dio. Non le idee più belle, non le soluzioni di tutti i problemi, non una politica o una teologia migliori:

il Vangelo, la vita e la persona di Cristo, pienezza d’umano e tenerezza del Padre.

L’ascensione è come una navigazione del cuore. Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo. È disceso (asceso) nel profondo delle cose, nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita. “La nostra fede è la certezza che ogni creatura è piena della sua luminosa presenza” (Laudato si’ 100), che «Cristo risorto dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con la sua luce» (Laudato si’ 221).

Ermes Ronchi 

SESTA DOMENICA DEL TEMPO DI PASQUA – B

IL PROFUMO DELL’AMORE 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Una di quelle pagine in cui pare custodita l’essenza del cristianesimo, le cose determinanti della fede: come il Padre ha amato me, così io ho amato voi, rimanete in questo amore. Un canto ritmato sul vocabolario degli amanti: amare, amore, gioia, pienezza… «Dobbiamo tornare tutti ad amare Dio da innamorati, e non da servi» (L. Verdi).

E una strada c’è, perfino facile, indicata nelle parole: rimanete nel mio amore. Ci siete già dentro, allora restate, non andatevene, non fuggite via. Spesso noi resistiamo, ci difendiamo dall’amore, abbiamo il ricordo di tante ferite e delusioni, ci aspettiamo tradimenti. Ma il Maestro, il guaritore del disamore, propone la sua pedagogia: Amatevi gli uni gli altri. Non semplicemente: amate. Ma: gli uni gli altri, nella reciprocità del dare e del ricevere. Perché amare può bastare a riempire una vita, ma amare riamati basta per molte vite.

Poi la parola che fa la differenza cristiana: amatevi come io vi ho amato. Come Cristo, che lava i piedi ai suoi; che non giudica e non manda via nessuno; che mentre lo ferisci, ti guarda e ti ama; in cerca dell’ultima pecora con combattiva tenerezza, alle volte coraggioso come un eroe, alle volte tenero come un innamorato. Significa prendere Gesù come misura alta del vivere. Infatti quando la nostra è vera fede e quando

è semplice religione? «La fede è quando tu fai te stesso a misura di Dio; la religione è quando porti Dio alla tua misura» (D. Turoldo)

Sarà Gesù ad avvicinarsi alla nostra umanità: Voi siete miei amici. Non più servi, ma amici. Parola dolce, musica per il cuore dell’uomo. L’amicizia, qualcosa che non si impone, non si finge, non si mendica. Che dice gioia e uguaglianza: due amici sono alla pari, non c’è un superiore e un inferiore, chi ordina e chi esegue. È l’incontro di due libertà. Vi chiamo amici: un Dio che da signore e re si fa amico, che si mette alla pari dell’amato!

Ma perché dovrei scegliere di rimanere dentro questa logica? La risposta è semplice, per essere nella gioia: questo vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, ne va del nostro benessere, della nostra gioia. Dio, un Dio felice (“la mia gioia”), spende la sua pedagogia per tirar su figli felici, che amino la vita con libero e forte cuore e ne provino piacere, e ne gustino la grande bellezza.

La gioia è un sintomo: ti assicura che stai camminando bene, che sei sulla via giusta, che la tua strada punta diritta verso il cuore caldo della vita. Gesù, povero di tutto, non è stato però povero di amici, anzi ha celebrato così gioiosamente la liturgia dell’amicizia, da sentire vibrare in essa il nome stesso di Dio. (Ermes Ronchi)

QUARTA DOMENICA DEL TEMPO DI PASQUA

AGNELLI E PASTORI 

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta: “Io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende “buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l’unico, che mette sul piatto la sua vita. Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita.

Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata.

Il mercenario, il pecoraio, vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano, io gli importo. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E mi commuove immaginare la sua voce che mi assicura: io mi prenderò cura della tua felicità.

E qui la parabola, la similitudine del pastore bello si apre su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di irreparabile. E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro Dio differente, il pastore che per  salvare me, perde se stesso.

L’immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che vanno oltre gli aspetti realistici della parabola (eccentrici li chiama Paul Ricoeur). Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più” che viene da lui, sull’impensabile di un Dio più grande del nostro cuore. Di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei mettergli fra le mani tutti gli agnellini del mondo. (E. Ronchi)