V DOMENICA DEL TEMPO DI PASQUA – ANNO C

NUOVISSIMO! 

Gv 13,31-33a.34-35

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Quando pensiamo alla gloria di Dio la nostra immaginazione si accende di fantasie di onnipotenza e splendore, il Vangelo invece –  che è il riferimento imprescindibile per parlare del Dio di Gesù Cristo – ci parla del Figlio che si consegna alle mani degli uomini. Altre volte, nel corso della sua vita, avevano cercato di “prenderlo”, ma Gesù è inafferrabile, neanche da Risorto vuol essere trattenuto, ma solo seguito nel nome di una grande libertà. Gloria di Dio allora non è togliere la vita agli altri, ma donare la propria sino alla fine, senza pentimenti e in maniera incondizionata. La gloria allora cambia anche il concetto di onnipotenza, che, a partire dal Getsemani e dalla consegna libera del Figlio si trasforma in amore che esprime la sua potenza nell’apparente inerzia dell’amore, che agli occhi del mondo, vive sempre in perdita. Davanti a questo gesto potremmo chiederci cosa pensiamo noi quando pensiamo Dio. É una nostra fantasia o la storia del Figlio che rivela il Padre e le sue intenzioni per diventare la nostra storia? 

Per questo Gesù ha l’ardire di dare e definire il comandamento dell’amore con la qualifica di nuovo. Ma che ci sarà di nuovo, sappiamo tutti che dobbiamo amare e questo sia il senso della vita? Ah sì? L’inquinamento eccessivo, la deforestazione, l’uso estremo delle risorse naturali, il cambiamento climatico, l’indifferenza, la disinformazione, la violenza e le guerre, i nazionalismi esasperati, la dittatura economica, l’odio, l’intolleranza, la mancanza di compassione … non sono forse segni che ci dicono che l’amore forse è proprio un comandamento da rinnovare quotidianamente, e da vivere nella totale novità e nel suo essere assolutamente inedito? 

La conclusione del vangelo di oggi definisce allora l’identità del discepolo in modo inequivocabile e perentorio: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” … Avere questa certezza e desiderare seguire Gesù a partire dalla pratica della sua parola che porta a rinnovare le nostre vite e di conseguenza il mondo, perchè abbiamo vissuto quell’amore testimoniato dal Figlio, può essere  veramente il trampolino di lancio per fioriture e resurrezioni laddove la morte, il buio e la disperazione sembrano avere preso il sopravvento definitivo. Nella mia vita in cosa dimostro il mio essere discepolo?

POCHI VERSETTI … MA DENSI

Gv 10,27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.

Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.

Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Vangelo breve, quattro soli versetti su chi è Dio e chi siamo noi.

Le mie pecore ascoltano la mia voce”.

Per essere di Dio ci vuole l’ascolto.

Facciamo attenzione al piccolo dettaglio: ascoltano la ‘mia’ voce, e non le ‘mie’ parole, perché le pecore non comprendono la lingua del pastore. Come il neonato che per qualche mese ascolta la madre riconoscendola come unica voce al mondo che lo incanta fin da subito, pur senza capirne il senso.

Con il tono di voce possiamo graffiare, possiamo ferire oppure accarezzare, perché la voce contiene tutto: affetto, devozione, cura, seduzione.

L’ascolto è ospitalità della vita. È l’esperienza di Maria di Magdala al mattino di Pasqua, del bambino che riconosce la voce al di là della porta e smette di piangere, certo che la mamma arriverà subito.

La voce è il canto amoroso dell’essere: Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline (Ct 2,8). E prima ancora, l’amato chiede il canto della voce dell’amata: la tua voce fammi sentire (Ct 2,14).

Ed ecco come continua il vangelo: io conosco le mie pecore. Gesù mi parla come uno che mi vede da sempre, dal grembo di mia madre. Da quando ero appena una perla di sangue ha seguito ogni mio passo, ha contato ogni mio sospiro.

Perché le pecore ascoltano? Non per costrizione, ma perché la voce è amica. E per questo bellissima, dove ha nido il futuro.

“Io do loro la vita eterna”. Che non è quella cosa interminabile e un po’ noiosa dalla durata indefinita e vaga, che poco ci interessa. La vita eterna è la vita dell’Eterno; vivere la sua vastità, la sua intensità, il suo legame caldo con ogni creatura. Il vangelo ci dà la sveglia con una immagine di lotta: Nessuno le strapperà dalla mia mano (v.28). Abbiamo in mente la parabola di Luca, il pastore buono che va in cerca della pecora perduta, la trova, se la carica sulle spalle, e torna.

Invece per Giovanni il pastore è un vero guerriero, che come il piccolo Davide difende con la sua fionda il gregge del padre, da lupi e da orsi. Le sue sono le mani forti di un lottatore contro ladri e predatori, mani vigorose che stringono un bastone, per camminare e lottare. 

E se abbiamo capito male e ci restano dei dubbi, Gesù coinvolge il Padre: nessuno può strapparle dalla mano del Padre (v.29). Nessuno, mai (v.28).

Due parole perfette, assolute, senza crepe. Nessuno, né creature né demoni, neppure le guerre, nessuno ci scioglierà più dall’abbraccio delle mani sue. Legame forte, non lacerabile. Nodo amoroso che nulla scioglie.

L’eternità è la sua mano che ti prende per mano.

E beato chi sa fare volare queste parole lontano, verso tutti gli agnellini minacciati del mondo. (Ermes Ronchi) 

TERZA DOMENICA DEL TEMPO DI PASQUA C

DOVE STA IL RISORTO? 

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 21,1-19

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.

Una porzione di pesce arrostito è la possibilità per i discepoli di riconoscere – nuovamente – il Signore Gesù, perchè, prima di tutte le belle parole, le ispirazioni, i riferimenti trascendentali e le indicazioni di cammino, il Signore Gesù vuole NUTRIRE le nostre vite. Ci prepara da mangiare. E il Signore fa sempre così: il suo “volto” è sempre “in altro”, non si manifesta mai in se stesso e non si fa mai addirittura amare in se stesso, è una logica teologica un po’ illogica. Perchè per vedere il volto di Dio devo vedere il volto di Gesù, per vedere il volto di Gesù devo vedere il volto dei fratelli, e per vedere il volto dei fratelli, che contiene e manifesta il volto di Gesù, devo guardare la storia e accorgermi del mondo in cui vivo ispirato dalla sua parola che getta luce sensata e di salvezza sulla nostra umanità, punto di arrivo di ogni sequela. 

Ogni volta siamo chiamati, come i discepoli, sta anche noi a riconoscere questo fatto. Perchè non basta neanche avere visto il Risorto in persona, la scena del vangelo avviene dopo che Pietro e i suoi amici si erano già  incontrati con il Maestro dopo la sua morte, ma, nonostante tutto decidono di “tornare a pescare”. Come dire: si torna a fare come prima, quell’incontro con Lui non ci ha cambiati, la vita è sempre la stessa … Soltanto l’ascolto di quell’ordine di “gettare la rete dall’altra parte” è la possibilità per riconoscere la voce del Risorto, che non si manifesta nello stare fisico sulla riva, ma nell’accoglienza di questo nuovo invito alla vita (trovare cibo per vivere) e a cambiare orizzonti e lanci. La fiducia in quel comando diventa rivelazione del volto risorto, non tanto e solo di Gesù, ma di chi ha seguito quell’indicazione. Credere per vedere. Messaggio anche per noi, da ricordare.  

Nessuno gli chiedeva, infine,  chi fosse perchè “sapevano bene che era il Signore”. Per essersi fidati di Lui e non per averlo visto! Quante volte sappiamo che cosa ci chiederebbe il Signore, ma passiamo la cosa “sotto silenzio”, meglio non coinvolgersi troppo ci dice la testa, anche se sappiamo che la vita e la storia sono infruttuosi. Ma il Risorto è tale perchè ci risorge, non dobbiamo dimenticarlo.