In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Vangelo breve, quattro soli versetti su chi è Dio e chi siamo noi.
“Le mie pecore ascoltano la mia voce”.
Per essere di Dio ci vuole l’ascolto.
Facciamo attenzione al piccolo dettaglio: ascoltano la ‘mia’ voce, e non le ‘mie’ parole, perché le pecore non comprendono la lingua del pastore. Come il neonato che per qualche mese ascolta la madre riconoscendola come unica voce al mondo che lo incanta fin da subito, pur senza capirne il senso.
Con il tono di voce possiamo graffiare, possiamo ferire oppure accarezzare, perché la voce contiene tutto: affetto, devozione, cura, seduzione.
L’ascolto è ospitalità della vita. È l’esperienza di Maria di Magdala al mattino di Pasqua, del bambino che riconosce la voce al di là della porta e smette di piangere, certo che la mamma arriverà subito.
La voce è il canto amoroso dell’essere: Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline (Ct 2,8). E prima ancora, l’amato chiede il canto della voce dell’amata: la tua voce fammi sentire (Ct 2,14).
Ed ecco come continua il vangelo: io conosco le mie pecore. Gesù mi parla come uno che mi vede da sempre, dal grembo di mia madre. Da quando ero appena una perla di sangue ha seguito ogni mio passo, ha contato ogni mio sospiro.
Perché le pecore ascoltano? Non per costrizione, ma perché la voce è amica. E per questo bellissima, dove ha nido il futuro.
“Io do loro la vita eterna”. Che non è quella cosa interminabile e un po’ noiosa dalla durata indefinita e vaga, che poco ci interessa. La vita eterna è la vita dell’Eterno; vivere la sua vastità, la sua intensità, il suo legame caldo con ogni creatura. Il vangelo ci dà la sveglia con una immagine di lotta: Nessuno le strapperà dalla mia mano (v.28). Abbiamo in mente la parabola di Luca, il pastore buono che va in cerca della pecora perduta, la trova, se la carica sulle spalle, e torna.
Invece per Giovanni il pastore è un vero guerriero, che come il piccolo Davide difende con la sua fionda il gregge del padre, da lupi e da orsi. Le sue sono le mani forti di un lottatore contro ladri e predatori, mani vigorose che stringono un bastone, per camminare e lottare.
E se abbiamo capito male e ci restano dei dubbi, Gesù coinvolge il Padre: nessuno può strapparle dalla mano del Padre (v.29). Nessuno, mai (v.28).
Due parole perfette, assolute, senza crepe. Nessuno, né creature né demoni, neppure le guerre, nessuno ci scioglierà più dall’abbraccio delle mani sue. Legame forte, non lacerabile. Nodo amoroso che nulla scioglie.
L’eternità è la sua mano che ti prende per mano.
E beato chi sa fare volare queste parole lontano, verso tutti gli agnellini minacciati del mondo. (Ermes Ronchi)