In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
I nostri modi di fare le cose determinano il senso di quanto viviamo. Capita così nel mondo del lavoro, dello studio, nelle relazioni: l’intima predisposizione davanti alla realtà ne costituisce anche la sua realizzazione.
Così vale anche per la preghiera: c’è un modo chiuso di stare davanti al Signore, e un modo che invece è in grado di accendere nuove modalità di vita, perchè segnato dall’apertura e dal desiderio di accogliere il Mistero di Dio, che in Gesù è diventato capacità e possibilità di comprensione umana di un volto diversamente lontano e sconosciuto.
La prima cosa che ci apre alla preghiera, ci ricorda Luca, è smettere di avere l’intima presunzione di essere giusti e disprezzare gli altri. Anzi, dice in Vangelo in greco, di NIENTIFICARE gli altri. Perché quando riteniamo di essere troppo “arrivati e completi” non c’è più spazio per nulla: nè per Dio, nè per la comunicazione con i fratelli. E lo stesso Dio, addirittura nella preghiera non ha più spazio.
Il fariseo, infatti, (non) pregava proprio così. Anche se formalmente le cose sembravano perfette, lui PREGANDO TRA SE’ e STANDO IN PIEDI (posizione di sufficienza e supponenza, addirittura davanti a Dio) non si rivolge a Dio, ma sciorina davanti a se stesso le sue qualità affinché si possa sentire a posto, disprezzando gli altri. Ben diverso il cuore del pubblicano, consapevole peccatore bisognoso di salvezza, che nel suo umile essere rivolto al Padre altro non invoca, a partire dalla verità del suo essere povero, un abbraccio pieno di misericordia. Gesù dice che il secondo viene ascoltato, il primo no, ma non perchè Dio è sordo, ma non aveva nulla da sentire.
Mi viene in mente San Paolo, che, pur sapendo di avere riscoperto il volto di Dio in Gesù e nel suo amore, pur avendolo predicato e portato in tutto il mondo con il meglio delle sue energie, si permette di scrivere: “io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra”. Eppure aveva rinnegato la giustizia della Legge, alla quale si affidava quando era fariseo, aveva scoperto la giustizia dell’amore in Gesù, ma sapeva che il suo modo di stare davanti a Dio era quello di chi sentiva il bisogno di essere salvato. E di lì inizia la sua preghiera e l’ascolto di quella Voce che in quella verità è capace di portare la salvezza e il cambiamento.

